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giandomenico ruggiero o dell’arte del servire

| danilo giaffreda

Difficile immaginarselo altrove. Che so, impiegato comunale, maestro di scuola elementare, operaio specializzato, libero professionista o – perchè no? – imprenditore. Non che le skill gli mancassero, anzi, sarebbe riuscito e avrebbe avuto successo in un qualsiasi altro mestiere. Ma già da giovanissimo era chiaro: la sala era il suo palcoscenico, il suo posto nel mondo, l’osservatorio migliore per scrutare, capire e servire i suoi simili. Servire? Sì, servire. Esattamente. L’attività che terrorizza tanto i giovani che affrontano per la prima volta il mondo della ristorazione, quella che li fa allontanare dopo i primi giorni di lavoro in sala, quella che li sconvolge al solo pensiero di prendere ed eseguire ordini, quella che li fa sentire dei falliti anche solo a nominarla, figuriamoci praticarla, era – parafrasando la tipica espressione inglese – la sua cup of tea. Faceva per lui, insomma. A capirlo, da subito, era stato colui che a pieno titolo può essere considerato il suo maestro, Antonello Magistà. Maestro indiscusso di accoglienza, di savoir faire, di intese al volo. Quelle che correvano dall’uno all’altro senza bisogno di parole, senza malintesi, senza fraintendimenti. Scansioni precise sullo stato della sala – quella del Pashà a Conversano – decriptate semplicemente guardandosi intorno e guardandosi poi a vicenda, vedendo entrambi le stesse cose, capendo al volo chi doveva fare cosa e quando. Uno spettacolo a cui ebbi il piacere di assistere la mia prima volta al Pashà, ai tempi di Piazza Castello, il salotto buono della città. Fu l’emozione più forte provata, forse più dei piatti di Maria Cicorella che pure mi conquistarono. Vedere gli occhi di un giovanissimo cameriere brillare d’intesa con il suo maître, avvertire la loro complicità, sentirsi destinatario di attenzioni messe in atto con estrema naturalezza senza doverle rimarcarle e pretenderle, fu uno spettacolo nello spettacolo, immagini di cui ancora oggi conservo memoria cristallina. Che sarebbe andato via da Conversano, che avrebbe bruciato le tappe, che avrebbe cercato il meglio dove crescere professionalmente, evolvere e affinare quella sua naturale predisposizione a servire, comprendere e rendere felice anche solo per il tempo breve di un pranzo o una cena il cliente, era chiaro. Fin troppo chiaro. A capirlo per primo era stato proprio lui, Antonello, che per questo lo avrebbe voluto accanto a sé ancora per molto, ma sapeva che a poco sarebbe servito irretirlo con benefit e promesse. L’ambizione era tanta e latente, pronta ad esplodere. La miccia, lunga, è bruciata per un po’ alla Francescana, un passaggio rituale, la metamorfosi in crisalide dopo essersi tessuto addosso un solido bozzolo in provincia. Poi il volo, da farfalla, spiccato a Le Calandre, meta ambita da sempre, dove la miccia esplode e da fuoco alle polveri sotto l’egida magistrale dello storico restaurant manager Andrea Coppetta Calzavara. L’umiltà lo ha aiutato. Il sorriso disarmante. Ma anche la gentilezza, innata, una propensione naturale a cogliere l’esigenza dell’altro e farla propria, risolverla – se possibile – o provarci, almeno. Il servire come atto di affermazione e soddisfazione di sé, la cura del cliente come di se stesso, senza trascurare nessun dettaglio. I principi di Raffaele Alajmo fatti propri, fagocitati e messi in pratica, con determinazione, sino al raggiungimento – a novembre scorso – della meta ambita: la nomina a responsabile di sala accanto a Matteo Bernardi, il sommelier, sodale e complice. Insieme non si accontentano di portare la cucina di Massimiliano Alajmo in sala, ma la anticipano e ne fanno partecipe la clientela raccontando con dovizia di dettagli come questa nasca mescolando alle citazioni, agli omaggi ai maestri e alla memoria, la sperimentazione, le idee e le intuizioni, il futuro insomma. La vera forza de Le Calandre. E di Giandomenico. Ché quegli sguardi di allora, quelle intese, quelle attese, quelle bottiglie elegantemente servite, quel garbo e quel physique du rôle precoce cos’erano, in fondo, se non anticipazione del futuro?

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