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conversano: la grande ciliegia

| danilo giaffreda

Che la fama e l’importanza della ciliegia di Conversano non siano abile marketing territoriale lo capisci definitivamente quando la guida che accompagna i turisti in visita al suo centro storico, prima di entrare nella Chiesa di San Benedetto, anticipa che sull’altare ligneo della Madonna del Rosario, tra animali, fiori e altri frutti, troveremo anche lei. Grossa, rossa, ammiccante, ispiratrice di terreni peccati di gola più che di preghiere riparatrici. Considerato che l’altare – barocco – risale al XVII secolo, se ne deduce che l’economia indotta dal frutto tentatore per eccellenza – altro che mela –  con cui sempre più la città tende a identificarsi, risale – se non ai suoi albori – certamente ai secoli in cui gli Aragonesi, governandola, condizionavano non poco le sue sorti. Ma non si pensi alle longeve ingerenza e interferenza degli Spagnoli come a una iattura cittadina, perché a riportare tutto nei ranghi di una diplomatica convivenza ci pensavano gli altri due poteri – quello vescovile  e quello delle badesse mitrate – che con quello comitale decretavano le sorti dei Conversanesi.  Simbolo di questa pax urbana certamente non scevra di intrighi, compromessi, imposizioni e alterne sottomissioni è Piazza della Conciliazione, da sempre cuore pulsante della città, meglio e più diffusamente nota come Largo della Corte. Dominata dalle architetture iconiche delle tre istituzioni  – il Castello, la Cattedrale e il Monastero di San Benedetto –  è qui che si respira, prima ancora di inoltrarsi nei vicoli del centro storico e di varcare le soglie delle sue tante chiese, la ricchezza storica di Conversano, il suo essere figlia legittima e consapevole  di vicende locali intrecciate con quelle nazionali e internazionali, la sua innegabile influenza sui  territori circostanti. Ed è qui, ancora, che si intuiscono la sua eleganza, la riservatezza e l’antica fierezza che si paleseranno – passo dopo passo, tra corti, vicoli, cunicoli e sagrati  – agli occhi di chi sa vedere e non semplicemente guardare. Di chi, per dirla alla De Saint Exupery, è capace di vedere con il cuore, perché l’essenziale è invisibile agli occhi. Perché l’essenziale, a Conversano, non è nel campionario di stili e forme architettoniche che in altri borghi pugliesi classifica la loro storia, nel clamore di irritanti e irretenti attrazioni turistiche o nella spettacolarità del monumentale, quanto – piuttosto – nei suoi silenzi;  nella scabra nudità delle facciate delle sue chiese, foriera – al loro interno – di ricchezze concrete ma non ostentate; nei riti della colazione e del gelato al Caffè dell’Incontro (nomen omen) o al più recente Verso; nel pigro sfiorare e sfogliare la carta stampata alla libreria Bloombook; nel ritrovare l’autentica memoria di cucina casalinga all’Evviva Maria di Maria Cicorella;  nel sorseggiare un calice di vino da Spaccio vedendo scorrere come in un piano sequenza la vita lenta di una città di provincia; nel passeggiare sotto la volta protettrice dei lecci di Villa Garibaldi, disegnata in forma di giardino alla francese dall’architetto Sante Simone;  nel farsi rapire dagli scenari futuri dell’interior e del finishing design nel nuovo spazio in stile industrial di Loi, insegna di tendenza per architetti non convenzionali; nel contribuire alla causa del pane buono, giusto e pulito passando a fare scorta di carboidrati da Spacciagrani; nel concludere la giornata, con la consapevolezza che la storia si fa anche a tavola, in una delle eleganti e rassicuranti sale del ristorante Pashà all’interno dell’antico Seminario Vescovile. No, non è abile marketing territoriale la ciliegia di Conversano, ma metafora perfetta del suo dolce, irresistibile e irreplicabile stile di vita.

 

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