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priyan wicky: chi la dura la vince

| danilo giaffreda

Una settimana ancora e finalmente si parte. Dopo il passaggio di mano del suo vecchio locale in Via San Calocero a Yoji  Tokuyoshi, Priyan Wicky riapre in Corso Italia, praticamente in Piazza Missori, a Milano. Una zona centralissima ma carente – se non addirittura priva –  di indirizzi gourmet che sforino l’orario di chiusura dei negozi.

L’impatto è forte: tre vetrine di rara eleganza e illuminazione discreta a marcare la notte, qui, in downtown, come meglio non si poteva. La scritta Wicky’s che campeggia perentoria ed è il suo marchio di fabbrica, il cerchio dorato che è ormai il suo landmark e un gioco perfettamente bilanciato di chiaroscuri, di luci e ombre, di materiali preziosi e materica essenza promettono un’esperienza fuori dal comune.

Tante le novità e tanti, quindi, i motivi per andarci. O tornarci. Un oyster-bar all’ingresso con tanto di scaffalatura vertiginosa alle spalle. Una sala, all’ingresso, dove continuare con la sua personalissima fusion che mixa, con intelligenza, sensibilità e amore per la cultura gastronomica italiana, oriente e occidente senza far rimpiangere né uno né l’altro. Un sushi-bar con tanto di bancone dove guardare in faccia Priyan che prepara sotto i tuoi occhi la vera cucina giapponese kaiseki. E un piccolo, vero, privè per chi vuole riservatezza e invisibilità.

Ha pensato davvero a tutto, senza lesinare energie, risorse e idee, questo cingalese con tanto di passaggio e iniziazione alla cultura giapponese a Tokio dopo una brillante tesi di laurea in criminologia ambita da tre università sparse per il mondo.  E’ lì che è esplosa la passione, divorante e totale, per la cucina e da lì è arrivato in Italia, dove l’ho conosciuto grazie a un indimenticabile teriyaki di salmone che pareva un’opera d’arte e mi ha fatto saltare di gioia su uno sgabello del banco sushi del ristorante Zero a Milano.

Breve la sua permanenza in quello che era, allora, il miglior ristorante sushi della città. Scalpitava il ragazzo. Irrequieto. Ferrea volontà e ambizione non riuscivano a tenerlo fermo. Seppi che voleva cambiare, iniziare da solo, mettersi alla prova, far assaggiare, senza mediazioni, la sua particolare idea di cucina orientale.

Molti di quelli passati in Via San Calocero ne hanno parlato entusiasticamente. Sia per l’esperienza gastronomica senza pari che per le sue capacità di saper accogliere, avvolgere e coccolare la clientela, arte sulla quale la gran parte della ristorazione nostrana crolla miseramente. Ripartire oggi da zero – e non è un gioco di parole –  rimettersi in gioco e competere con le millanta e interminabili inaugurazioni di indirizzi enogastronomici di rilievo e di tendenza degli ultimi mesi a Milano, non è impresa facile.

Il dubbio, quando finalmente varcherò quella soglia da cliente e non da curioso che si è aggirato qualche giorno fa tra i tavoli, nelle cucine e dietro ogni banco cercando di capire e carpire i sogni, i programmi e le idee in agitazione perenne del samurai Wicky, sarà: fusion, sushi o le preziose bollicine che ammiccano dai wine-cellar per battezzare come meglio conviene le ostriche dell’oyster-bar?

La certezza, per ora, è soltanto una. Non si andrà più via da Milano senza aver provato la Wicuisine e tutto il prezioso mondo che il suo artefice ha saputo, non senza difficoltà, cesellarle intorno. Chi la dura la vince.

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